Il vagone esce dalla galleria e la luce trasparente del golfo irrompe nello scompartimento, solo per un attimo, perché il convoglio si tuffa di nuovo nell’oscurità. Gli occhi non riescono a compensare l’improvvisa mancanza di luce, le orecchie non riescono ad abituarsi al frastuono di ferraglia che s’ode nel chiuso del tunnel e come spesso accade lungo questa tratta ferroviaria che percorro ormai da trent’anni, d’improvviso non si vede più, non si parla più e nulla si può più ascoltare. È il momento giusto per raccogliere i pensieri. Penso che ho appena salutato dal finestrino del treno i miei genitori e che mia madre come sempre, tenendo un fazzoletto bianco, dal balcone di casa mi ha fatto ampi segnali con le braccia.
Penso che, seguendo un impulso del cuore, quando l’ho stretta a me per un ultimo saluto, l’ho sollevata con preoccupante facilità e l’ho fatta volteggiare in aria come avesse il peso di un fuscello.
Penso che fra poche ore sarò di nuovo a Roma ed entro domattina dovrò decidere qualcosa su quanto la direzione di rete mi ha proposto. Il lavoro mi attrae perché è una cosa forte, perché sarà un’esperienza che certamente non potrò dimenticare, quella di recarmi nel cuore della tragedia più grande del nostro tempo, e capire, cercare di comprendere l’impossibile.
Un colpo di luce entra di nuovo dal finestrino assieme a quell’odore di mare che da molti anni mi porto dentro come un talismano. Ormai non vedo più la città, vedo solo una lama di sole che come spesso d’inverno accade nel ponente ligure, taglia l’orizzonte e rende nitida la mente.
Quando entra negli occhi il flash nero della nuova galleria ho già deciso quanto dovrò fare domani.
Roma, le 10 del mattino di venerdì 24 febbraio.
Risalgo la rampa di via Pellati al Portuense che conduce all’abitazione di Piero Terracina.
Al telefono mi ha chiesto di essere puntuale dato che dopo il nostro incontro deve accompagnare dal medico il cugino che vive nella sua stessa casa e che da tempo ha problemi di salute. Per convincerlo ad incontrarmi ci siamo sentiti diversi volte ed è stato difficile riuscire a superare la sua diffidenza, il timore che ancora nutre dentro di sé di vedere violato il suo dolore, di permettere ad un estraneo di riaprire una per una le pieghe della memoria e avvicinarsi a quanto di più profondo, crudo, ma anche di tenero, si possa celare nei suoi ricordi di deportato.
Mentre percorro gli ultimi metri di strada penso al modo migliore per avvicinarlo, per non dargli l’impressione di voler fare della sua vicenda un caso giornalistico, dove il rispetto per ogni anno, ogni giorno, ogni ora e attimo del suo passato, possa divenire cosa secondaria di fronte alla scoperta di una storia di sicuro interesse umano oltre che professionale.
Ma le gambe sono più rapide dei pensieri e mi trovo quasi improvvisamente di fronte alla porta della sua casa, al cospetto di un uomo pressappoco della mia statura, ma più in carne che mi guarda con gentilezza, osservandomi attraverso le lenti degli occhiali.
Mi fa accomodare in una stanza che rivela l’assenza della mano gentile di una donna e sediamo, uno accanto all’altro, presso un tavolo rotondo dove depongo carta, penna e alcune bobine da registrare.
Piero Terracina mi guarda e non parla. Sembra proteso a comprendere la natura dei miei pensieri, a soppesare le parole che con mia sorpresa, pronuncio con emozione e quasi con fatica.
In realtà provo lo stesso disagio di chi è costretto a parlare, ma che invece vorrebbe mettersi in un angolo ed ascoltare, ascoltare la voce di un uomo tornato, tra i pochi, da un campo di sterminio.
Dopo circa un’ora di dialogo stentato, lasciamo la tavola e raggiungiamo la terrazza che s’apre sui quartieri sud-occidentali della città. Terracina si guarda attorno come cercasse nel groviglio delle case il filo dei suoi o dei miei pensieri, il coraggio e la decisione per rispondermi qualcosa, poi, improvvisamente, ricorda l’appuntamento che ha fissato dal medico per il cugino.
Penso sia un modo educato per liberarsi della mia presenza, tuttavia gli propongo un successivo incontro. “Mi sono trovato a mio agio nel parlare con lei e desidero rivederla” dice Terracina congedandomi con un tranquillo sorriso e chiudendo l’uscio dietro di sé. Mi meraviglio non poco considerando il tono così poco disinvolto del nostro dialogo, tuttavia sento crescere dentro di me la speranza che la prossima volta che ci vedremo le cose andranno meglio e che forse mi concederà la sua fiducia.
So di chiedergli molto, di compiere un gesto che in quarant’anni non ha mai trovato la forza di fare, tornare con me ad Auschwitz-Birkenau nel luogo dove ha perduto tutti i suoi cari.
Martedì ventotto febbraio, il giorno del nostro secondo appuntamento, Terracina mi dà appena il tempo di salutarlo e seduto presso la tavola del soggiorno, inizia a raccontare con grande determinazione l’odissea della sua famiglia.
Per più di un’ora l’ascolto in silenzio, rivivo fatti e momenti di vita di un giovane italiano, di religione e cultura ebraica, nato e cresciuto nella capitale, che un bel giorno, nell’autunno del trentotto, quand’era ancora ragazzo, ha scoperto di aver perduto, assieme all’intera famiglia, tutti i diritti e le libertà di cui dovrebbe godere ogni cittadino.
“Ho riflettuto molto in questi quattro giorni – afferma con voce decisa – e sono arrivato alla conclusione che anch’io ho il dovere di far conoscere quanto è accaduto”.
Per alcuni minuti l’ascolto in silenzio senza pronunciare parola, quasi cercando di fargli dimenticare la mia presenza. “Lo farò assieme a te” dice Terracina passando improvvisamente al tu.
Mi sembra sorprendente che Piero, per la prima volta dal suo ritorno in patria, abbia finalmente deciso di fare proprio con me pubblica testimonianza dei giorni del suo dolore, che mi abbia scelto come testimone della sua sofferenza, come compagno di viaggio per contare assieme a lui i passi di un percorso lungo duemila chilometri dove, in quel giorno d’aprile di cinquantadue anni fa, aveva visto dissolversi le ragioni stesse che spingono un uomo a vivere ....
“Durante il viaggio dovrai avere molta pazienza – aggiunge Piero quasi sottovoce congedandomi – quando lo chiederò non dovrai farmi domande e lasciarmi solo. Ogni minuto, ogni chilometro del percorso che faremo assieme è scavato nella mia memoria, inciso sul mio corpo per ciò che ho vissuto nel campo di sterminio”.
Scendo le scale e guadagno l’uscita dal palazzo con la consapevolezza di dover parlare ancora con Piero prima d’avere la certezza del suo definitivo assenso.
È quanto più volte accadrà nel mese di marzo e nella prima metà d’aprile. Ma il ventuno di quello stesso mese debbo partire con urgenza per Sanremo, la città dove sono nato. Mia madre si è sentita male ed è stata ricoverata per controlli clinici.
All’Istituto Europeo di Oncologia di Milano diagnosticano un tumore maligno in fase terminale. È una notizia che rende il mio lavoro quasi intollerabile, ma dopo pochi giorni sono di nuovo a Roma.
Lunedì 22 maggio riparto per Venezia dove incontro Danilo Marabotto, il direttore della fotografia che mi è stato assegnato dalla sede Rai di Milano, e Filippo Candeliere, il fonico. Lavoriamo assieme, a Venezia, a Trieste, Milano, Torino, Modena, Firenze. Registriamo le testimonianze di molti ebrei italiani che dall’autunno del ’38 hanno vissuto le stesse vicende di Piero. È in quella data infatti che sono state promulgate le leggi antiebraiche che dopo sette anni di persecuzioni hanno condotto un’intera comunità a rischiare l’estinzione nei campi di sterminio nazisti.
Roma, Monteverde vecchio, le 9 del mattino di mercoledì 14 giugno.
Piero lo rivedo in Via Giovanni Carini, angolo via Sprovieri, dove abitavano i Terracina. Giungo assieme a Danilo Marabotto e mi rendo conto di averlo distolto bruscamente dai suoi pensieri mentre osserva l’edificio che ha di fronte.
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Quella stessa sera giunge a casa una telefonata di mio fratello. Mia madre sta morendo. Dopo due ore salgo sul primo treno che parte da Termini e l’indomani mattina alle otto il convoglio transita sul lungomare sanremese di fronte alle finestre dei miei. Come sempre mi sporgo dal finestrino, ma stamane non c’è nessuno che mi saluta col fazzoletto. Per cinque giorni dimentico ogni cosa e resto vicino a mia mamma che sta vivendo le sue ultime ore di vita. Il venti notte a vegliarla siamo solo io e mio fratello che seguiamo ogni impercettibile cambiamento nel ritmo del suo respiro. Le capacità di reagire del suo corpo sono ormai all’estremo. Verso le tre di notte le mani di mia mamma sono ancora calde e sudate, col trascorrere dei minuti diventano più affusolate e lisce, stranamente belle, si raffreddano. È la fine.
Non posso attendere il funerale perché il mio operatore non può rimandare il viaggio che dobbiamo fare in Polonia. Danilo alla fine del mese ha in programma un’altra produzione. Il ritardo di un solo giorno mi costringerebbe a perdere la collaborazione di una persona così sensibile e attenta.
Lascio la casa con la bara di mia madre ancora aperta e quella stessa mattina salgo sul treno per Roma.
Nello scompartimento i miei compagni di viaggio parlano tra loro a raffica e io mi lascio coinvolgere e stordire dalle loro parole.
Roma, Stazione Termini, ore 10 di giovedì 22 giugno.
Ad attendermi presso la biglietteria trovo Christina Clausen. Christina è danese e da qualche tempo lavora alla Rai come programmista. Durante il viaggio avrà la funzione di organizzatrice ed interprete perché conosce diverse lingue, tra cui il tedesco, lingua che durante la trasferta sarà quasi indispensabile. Dopo pochi minuti giunge anche Danilo seguito da Filippo. Poi è la volta di Piero che ha caricato la valigia s’un carrello. |
A quell’ora del mattino c’è molta gente che cammina di fretta per raggiungere i treni in partenza e mi rendo conto che disturbiamo non poco il procedere dei viaggiatori.
Guardo più volte Piero che mi precede. Mi cerca ogni tanto con lo sguardo per regolarsi sulla direzione che deve prendere e ogni volta che lo osservo non posso fare a meno di andare dal primissimo piano del suo sguardo al dettaglio di quella scritta incisa in modo indelebile sulla sua pelle. A mano a mano che avanziamo verso il marciapiede del treno provo insofferenza per la fretta di chi ci supera alla nostra destra e alla nostra sinistra, senza degnare Piero di uno sguardo.
Sento la rabbia crescermi dentro, come se i viaggiatori in movimento avessero il dovere di fermarsi e in silenzio osservare quel braccio segnato dall’orrore che, passo dopo passo, come in una sequenza filmica al rallentatore, raggiunge il convoglio su cui spiccano i caratteri della destinazione.
A5506, possibile che nessuno, guardando l’inquadratura indicata dalla direzione dell’obiettivo, si chieda cosa significhino quelle lettere, A5506,appena scoperte dalla manica del giubbotto e dalla peluria del braccio ma in realtà perfettamente leggibili.
Fermati ragazzo, non correre
con quella bottiglia di minerale in mano,
tu che leggi sul giornale
la cronaca vittoriosa della squadra,
che ridendo acquisti un cono gelato,
che parli con allegria
alla donna che stringi al petto,
frena i tuoi passi
e osserva quel braccio seminascosto
dal risvolto della camicia.
Tu che cammini di fretta
tra la folla del marciapiede
e nascondi le ormai tante primavere
col colore sgargiante della giacca,
tu che con cento euro
credi di poter comprare la felicità
senza badare al sorriso ironico della gente,
tu che non temi di distruggere l’amore
squadernando la fragile intimità dei sensi,
fermati e osserva
con l’attenzione di cui sei capace.
A5506 è il nome di un uomo
oggi all'inizio del viaggio,
un uomo anziano che reca con sé
fino all'ingresso del campo di sterminio
lettere dolorose come stimmate
incise con la forza di un flash back
sul nastro magnetico del beta.
Ora nessuno può aiutarmi a superare il mio smarrimento e ad affrontare questo difficile viaggio. Debbo fare da solo e non smarrirmi di fronte alla responsabilità della storia che devo raccontare, di fronte alla lunga fila delle carrozze in attesa. |