"Per ignota destinazione" epilogo | di Piero Farina |
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Piero Terracina viene liberato il 27 gennaio del ’45, pesa 38 chili. I tedeschi hanno lasciato il campo già da qualche giorno e le condizioni fisiche di tutti gli internati sono ormai estreme: oltre a non avere assolutamente più nulla da mangiare, la situazione igienica del campo è insostenibile. L’unica acqua a disposizione, quella ottenuta facendo sciogliere la neve dentro una gavetta riscaldata dalle mani, spesso è resa imbevibile dalla presenza dei liquami provenienti dagli scarichi fognari otturati o dalla vicinanza dei morti in decomposizione. Per quanto faccia molto freddo i corpi lasciati senza sepoltura sono così numerosi che riescono ad inquinare la neve e ad ammorbare l’aria. Terracina è così debilitato che anche quando si rende conto che gli aguzzini hanno lasciato definitivamente il campo, non riesce più a provare alcuna sensazione di sollievo o di gioia. Quando dopo molte peripezie Terracina raggiunge Roma, trova l’appartamento, che ha abitato fino al giorno della deportazione con la sua famiglia, occupato da estranei. Il proprietario della casa l’ha affittato con lo stesso mobilio ad un altro inquilino. Dopo molte preghiere ottiene che gli sia riservata almeno una stanza. Cerca inutilmente di rientrare in possesso di tutte le sue cose, in particolare dei mobili che sono appartenuti da più generazioni alla sua famiglia, ma tutto è inutile. Per quanto abbia sulle spalle la terribile esperienza della deportazione non gli è riconosciuto né il diritto di proprietà, né quello di alloggio. Dopo qualche settimana di inutile lotta decide così di andare ad abitare con suo cugino, lasciando ai nuovi fittavoli l’uso di quanto gli è stato impunemente sottratto. Neppure lo Stato Italiano ha fatto molto per coloro che sono riusciti a ritornare dai campi di sterminio. Nedo Fiano ricorda che al passaggio del confine del Brennero ebbe una mela e una decina di biscotti. Dopo anni di attesa gli è stato poi concesso un vitalizio di duecento ottantamila lire al mese. Molti, tornati gravemente ammalati, come afferma Teo Ducci, hanno trascorso dal primo dopoguerra interi decenni trasferiti da un sanatorio all'altro. I reduci, per vedere riconosciuta la loro posizione giuridica di deportati, hanno dovuto riunirsi in associazione e spesso affrontare l’insensibilità dei burocrati e l’assurdità della burocrazia. A questo proposito si può citare il Ministero della Difesa dell’appena nata Repubblica Italiana che chiedeva ai deportati di firmare una formale dichiarazione dove avrebbero dovuto garantire di non aver mai fatto parte dell’amministrazione fascista, né di essere mai stati in alcun modo dei collaborazionisti |
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